Basilica di Santa Maria Maggiore

Bergamo

INTRO

Nascosta tra le pieghe della Lombardia, dove la pianura cede il passo all’imponenza delle Alpi, Bergamo si schiude in un gioco di contrasti sorprendenti. Una realtà contraddistinta dalla dicotomia tra Città Bassa, effervescente, moderna e pulsante e Città Alta, elegante custode dei secoli passati, luogo nel quale ogni angolo racconta una storia, ogni via svela nuove scoperte. 

italia romanica

Le origini

Nascosta tra le pieghe della Lombardia, dove la pianura cede il passo all’imponenza delle Alpi, Bergamo si schiude in un gioco di contrasti sorprendenti. Una realtà contraddistinta dalla dicotomia tra Città Bassa, effervescente, moderna e pulsante e Città Alta, elegante custode dei secoli passati, luogo nel quale ogni angolo racconta una storia, ogni via svela nuove scoperte. 

Salendo le strade che conducono all’antico cuore bergamasco, racchiuso tra le imponenti mura venete, si snoda un labirinto di vicoli stretti, piazze incantevoli e architetture monumentali che narrano secoli di storia e cultura.

E così, giungendo dinnanzi alla maestosa e sorprendente Basilica di Santa Maria Maggiore, si apre ai visitatori un mondo in cui la storia vive ancora, palpabile in ogni pietra e in ogni opera d’arte.

La Basilica, esemplare nella propria magnificenza architettonica, nobilita la veste storica del capoluogo nel quale affonda le proprie radici.

La centralità che oggi percepiamo nella sua veste monumentale viene infatti da lontano e comprende tutte le attività dell’agire umano.

Collocato nel centro politico, religioso ed economico della città, l’eccelso edificio sacro ha osservato il fluire della vita cittadina da una posizione privilegiata e nel tempo ha contribuito a modificarne l’assetto.

una chiesa superlativa

La storia narra che nel 1133 le terre bergamasche furono colpite da una grave siccità, cui seguirono la carestia e la peste. La popolazione di Bergamo invocò allora la Vergine per chiedere il Suo aiuto e nel 1135 deliberò di erigere una chiesa come voto di ringraziamento. Il Consorzio della Fabbrica, appositamente costituito, raccolse gli oboli dei cittadini e, il 15 agosto 1137, il Vescovo di Bergamo Gregorio benedisse la prima pietra della Basilica di Santa Maria Maggiore.

Dal 1454 la Basilica appartiene alla Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo – MIA per volontà di papa Nicolò V e, prima, del Comune di Bergamo. Un evento senza eguali nella storia italiana e che dimostra il legame profondo tra la città e la MIA, chiamata a gestire quella che fu definita la “Cappella della Città”.

Nell’intreccio tra storia e leggenda, da allora la Basilica svetta nel cuore di Città Alta, incardinata tra piazza Vecchia e piazza Rosate, cuore nevralgico e parte più nobile della Bergamo storica.

La sua centralità urbanistica e religiosa è confermata dal fatto che l’edificio risulta privo di una facciata nel senso tradizionale, vantandone una duplice: la parete del lato sud, con il portale “dei leoni bianchi” e la parete del lato nord, con il portale “dei leoni rossi”. 

La chiesa sorge sui resti di un’altra più piccola già dedicata alla Madonna. Poco si conosce del costruttore, tale Magistero Fredo, individuato come uno dei maestri comacini. La chiesa fu improntata a quello stile romanico maturo tipico dell’epoca, arricchito di influssi con provenienza geografica diversificata, anche in direzione europea. Delle cinque absidi originarie ne sopravvivono due, quella centrale e quella a sud-ovest; delle altre, una venne fatta demolire da Bartolomeo Colleoni nel 1472 per farne ricavare lo spazio destinato alla Cappella della propria sepoltura; una seconda nel 1485 fu sostituita con una Sacrestia e una terza fu parzialmente abbattuta per far posto al campanile edificato tra il 1436 e il 1459. Da quelle superstiti si vede che il modello della loro struttura appare caratterizzato dalla presenza di due ordini, uno a finestre strombate e un secondo, il superiore, costituito da una galleria a giorno. La cupola, su base ottagonale a lati irregolari, si innalza progressivamente con tre gallerie illuminate da aperture praticabili; la più bassa con archi a tutto sesto, le due più alte con bifore, mentre un’agile cuspide chiude questo ritmato e pacato movimento verso l’alto.

Il tessuto costruttivo murario rivela registri a tempi diversi nell’edificazione, manifestamente condizionata da disponibilità finanziarie diverse: a blocchi grandi, regolari e ben squadrati la parte orientale e quella della prima fascia inferiore; a blocchi più piccoli e irregolari il resto. Caldo e variegato è anche il colore della pietra arenaria impiegata, dal più morbido giallo ambrato al grigio pietroso. Nel 1351-53, Giovanni da Campione intraprese l’adattamento gotico della basilica con la realizzazione in marmi policromi del portale verso piazza Vecchia a tre ordini architettonici sovrapposti; il protiro dalla ricca ed elegante strombatura, una loggetta con le statue di S. Alessandro a cavallo e i SS. Barnaba e Vincenzo, un’edicola con la Vergine e le Sante Grata ed Esteria. Nel 1360 fu la volta del secondo portale, arricchito con formelle raffiguranti Cristo, gli Apostoli, immagini di Santi, oltre che con figure di manovali e lapicidi al lavoro; e nel 1367 il medesimo Giovanni da Campione, aiutato dal figlio, realizzò l’ultimo portalino nell’angolo di nord-est, con materiali più poveri e forme più dimesse. 

Completa lo slancio raffinato e ascensionale di queste integrazioni la presenza, sulla parete verso piazza Rosate, di una guglia, opera di Anex de Alemania, lo scultore Hans von Fernach proveniente dai cantieri del Duomo di Milano, autore di un tabernacolo cuspidato “nordica freccia a trafori in tanta gravità di compatte forme lombarde”. 

All’interno della basilica, le reminiscenze di questa stagione gotica sopravvivono solo nel recupero di alcuni affreschi, attribuiti al Maestro dell’Albero della Vita (1347), autore anche delle pitture nella parte opposta del transetto con l’”Ultima Cena” e “S. Eligio che ferra il cavallo”, e al Maestro del 1336, cui si deve un grande affresco con “S. Alessandro a cavallo” e quello della “Madonna fra Santi”.
In seguito alle prescrizioni contenute in due relazioni di Pellegrino Pellegrini Tibaldi del 1576 e del 1580, iniziò la trasformazioni interna della chiesa, con la soppressione di tutti gli altari laterali e di tutte le pitture a fresco. Il risultato di questa trasformazione coincide quasi alla lettera con quanto oggi si vede.

Il coro intarsiato di lotto e capoferri

Entrando nella Basilica, varie sono le occasioni in cui lo sguardo si fa dapprima curioso, poi meravigliato, dinnanzi all’antico splendore che si mostra ai visitatori.

Tra i principali capolavori, le preziose tarsie del Coro ligneo rivestono un ruolo di spicco. Trentasei immagini enigmatiche ideate da Lorenzo Lotto e intarsiate da Giovan Francesco Capoferri, connotato da un’inesauribile fantasia scenica, con una narrazione sciolta che si distanzia fortemente dai toni aulici e composti delle opere di Tiziano in quegli stessi anni.

Il Coro è composto da due sezioni, nettamente distinte per funzione, caratteristiche esecutive e cronologia, visto che furono realizzate a circa vent’anni di distanza l’una dall’altra: il Coro dei Religiosi, realizzato per primo, tra il 1523 e il 1533 e, alle sue spalle, nell’area absidale della Basilica, il Coro dei Laici, realizzato tra il 1553 e il 1555. Essendo una Basilica comunale, infatti, Santa Maria Maggiore si dotò anche di un Coro in cui sedevano, durante le celebrazioni, i congregati laici di quella che oggi è la Fondazione MIA, committente dell’importante restauro, avviato nel 2022 e concluso nel 2023, con il sostegno economico della Fondazione Banca Popolare di Bergamo insieme a Intesa Sanpaolo e l’opera certosina e raffinata, quanto paziente e amorevole mano di Luciano Gritti e dei suoi colleghi di bottega – con la supervisione della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Bergamo e Brescia.

Un itinerario “iniziatico”, che attraverso figure simboliche sintetizza visivamente i temi attinti dagli eterogenei campi di ricerca del Rinascimento, in un sincretismo alchemico fra temi religiosi e archetipi pagani, concetti spirituali e temi profani, storie bibliche e metafore ermetiche, suggestioni della mitologia greco-romana e concetti della filosofia neoplatonica. Un luogo della memoria, che racchiude in sé tutto lo scibile dell’umanesimo veneziano del primo Cinquecento.

Queste raffigurazioni sono state pensate per non essere facilmente decodificate, per creare un senso di mistero che dia adito a molteplici interpretazioni, anche in contraddizione l’una con l’altra. Con le sue imprese Lotto va oltre la relatività dell’interpretazione soggettiva, scardinando ogni certezza, superando qualsiasi spiegazione dialettica, poiché l’immagine innanzitutto deve evocare il senso di mistero legato all’ineffabilità della presenza divina.

Un alone di mistero enfatizzato dai misteriosi «coperti» con il loro incredibile meccanismo a scomparsa, poi divenuti parte fissa del Coro dei Religiosi, che in certi periodi dell’anno, coprivano le tarsie, abbassandosi come tapparelle e mostrando la sottostante raffigurazione di suggestione neoplatonica.

la cappella musicale

Ascoltare e vedere. A questo erano chiamati i fedeli che varcavano la soglia della chiesa: ascoltare la liturgia e la musica, ammirare la bellezza, osservare le processioni e gli apparati allestiti nelle navate in occasione delle celebrazioni solenni.

Istituita a partire dalla seconda metà del XV secolo, quella della Basilica di S. Maria Maggiore è una delle Cappelle musicali più illustri ed antiche d’Italia.

La prima menzione di un insegnante di musica nella Basilica di Santa Maria Maggiore risale al 29 settembre 1480 con il riferimento a un tale “prete Giovanni”, direttore dei cantori, assunto perché «debeat in cantu figurato cum aliis cantare et clericos ecclesie aptos docere musicam». Doveva perciò insegnare la musica agli altri chierici, cui potevano aggiungersi cantori laici e organisti, stipendiati dalla MIA.

Dal primo nucleo di cantori guidati dal magister, si formò e perfezionò poi la vera e propria cappella musicale che nei secoli ha saputo mantenere alta la qualità del suo servizio grazie alla munificenza della MIA e alla fama dei suoi Maestri, tra i quali si annoverano F. Gaffurio, P. Vinci, A. Grandi, T. Merula, G.B. Bassani, C. Lenzi, S. Mayr, A. Ponchielli.

È durante le “lezioni caritatevoli” di musica tenute da Johann Simon Mayr che viene scoperto il talento di Gaetano Donizetti.

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